Nel corso degli ultimi anni si è assistito ad una vera e propria Rivoluzione telematica che, grazie all’avvento di Internet, ha comportato enormi mutamenti nel quotidiano di ognuno.
Non sorprende infatti, come le corti comunitarie e quelle nostrane siano siate chiamate per la prima volta a disciplinare la trasmissibilità mortis causa del patrimonio digitale, intendendosi come tale i contenuti delle e-mail, delle conversazioni chat e degli account dei social networks, i bitcoin, le criptovalute, le immagini e i beni elettronici fruibili tramite la rete, come la musica. Se ne deduce come, in un mondo sempre più digitalizzato, anche l’oggetto delle successioni mortis causa possa ricomprendere non solamente i beni materiali e immateriali, ma anche quelli digitali.
A tal riguardo le problematiche principali sottoposte all’attenzione delle corti vertono in merito alla richiesta da parte degli eredi del de cuius di accedere al patrimonio digitale di quest’ultimo, in particolar modo ai contenuti digitali delle e-mail, degli account attivi sui social networks e a quelli presenti sui dispositivi dal lui posseduti.
Il primo caso che ebbe ad oggetto la trasmissibilità post mortem dei beni digitali coinvolse un giovane marine americano, deceduto in Iraq e per il quale i genitori chiesero al provider Yahoo! di aver l’accesso ai contenuti della casella di posta elettronica del figlio, sostenendo che essa potesse essere equiparata ad una cassetta di sicurezza i cui contenuti rientrano nell’asse ereditario. Tuttavia, essendo il rapporto tra l’utente e il fornitore del servizio regolato da un contratto contenente clausole volte a disciplinare, oltre che i contenuti digitali, anche le sorti del contratto dopo la morte dell’utente, il provider Yahoo! in virtù della clausola “no right of survivorship and no trasferibility” respinse la domanda dei genitori del ragazzo. Il rifiuto prese le mosse dal fatto che in forza della suddetta clausola, accettata dal ragazzo al momento della creazione della casella di posta elettronica, l’account e i contenuti digitali presenti al suo interno si dovessero estinguere dopo la sua morte, con la conseguente intrasmissibilità degli stessi. Fu solo a seguito di un lungo iter giudiziario che i genitori del giovane riuscirono ad ottenere dalla Probate Court della Oakland County la consegna, da parte di Yahoo!, delle e-mail ricevute dal figlio, ma non l’accesso all’account ritenuto intrasferibile in forza delle clausole rinvenute nel contratto.
A distanza di pochi anni dal caso sopra menzionato, un’ulteriore vicenda giudiziaria si è originata a seguito della morte di una giovane donna precipitata dal dodicesimo piano di un edificio. A seguito della tragica vicenda i genitori di quest’ultima si erano rivolti al social network Facebook, al fine di ottenere le credenziali di accesso all’account della figlia. Tuttavia, anche nel caso di specie è stata rifiutata dal provider la richiesta presentata, in quanto contraria alle condizioni generali di contratto e al diritto di privacy di cui allo Stored Communications Act. In questo caso, a differenza del precedente, la Corte federale per il Northern District of California ha rigettato la domanda dei ricorrenti, in quanto ritenuta contraria al richiamato Stored Communications Act.
Fattispecie analoga si è verificata in Germania, ove una giovane ragazza perse la vita dopo essere stata investita nella metropolitana di Berlino. I genitori della ragazza a seguito dell’accaduto si rivolsero a Facebook per accedere ai contenuti presenti sul profilo della figlia, allo scopo di ricercare elementi utili ad escludere l’ipotesi di suicidio. Tuttavia, il social network Facebook, dopo avere reso commemorativo il profilo della giovane all’indomani della sua morte, nega loro l’accesso invocando le condizioni generali del contratto e le policy aziendali, in forza delle quali a un profilo commemorativo nessuno può accedere o apportare modifiche. I genitori decisero così di adire il Tribunale di Berlino allo scopo di vedersi riconosciuto il loro diritto di accedere al profilo Facebook della figlia, in quanto eredi. La domanda degli attori venne dapprima accolta in primo grado, poi rigettata in appello ed infine accolta dalla Suprema Corte tedesca, la quale statuì che “Alla morte del titolare di un account di social networking, il relativo contratto –in via di principio– si trasmette ai suoi eredi, ai sensi del par. 1922 BGB”[1]. Tale paragrafo, rubricato Successione Universale, al primo comma statuisce che “Alla morte di una persona, i suoi beni vengono trasferiti nel loro insieme a una o più eredi”, se ne deduce che nella categoria dei beni debbano essere ricondotte anche le obbligazioni contrattuali e i diritti che ne discendono, potendo pertanto rientrare nella suddetta categoria anche le posizioni contrattuali relative all’utilizzo dei social network.
La sentenza de qua mostra come all’evoluzione della civiltà vada di pari passo l’evoluzione del diritto, infatti, la successione mortis causa a titolo universale che da sempre rappresenta uno dei principi fondamentali del diritto tedesco è stato adeguato all’avvento dell’era digitale.
Sul piano nazionale anche le nostre corti sono state chiamate ad occuparsi di questa nuova tematica. A tal proposito si segnalano due casi. Il primo ha visto come protagonisti la società americana Apple e i dati personali archiviati sul iCloud di un giovane chef, deceduto in un grave incidente stradale. I genitori del ragazzo a causa della totale distruzione del telefono cellulare del figlio, si rivolsero alla società Apple Italia S.r.l., al fine di recuperare i dati personali archiviati sull’iCloud del giovane. La società respinse la richiesta dei genitori, subordinando l’accesso all’ID Apple del figlio ad un ordine del Tribunale dove fosse specificato che: il defunto fosse il proprietario di tutti gli account associati all’ID Apple; il richiedente fosse amministratore o rappresentante legale del patrimonio del defunto; il richiedente agisca, in qualità di amministratore o rappresentante legale, come “agente” del defunto e la sua autorizzazione costituisca un “consenso legittimo”, secondo le definizioni date nell’Electronic Communications Privacy Act; il Tribunale ordini a Apple di fornire assistenza nel recupero dei dati personali dagli account del defunto, che potrebbero contenere anche informazioni o dati personali identificabili di terzi[2].
Alla luce delle richieste avanzate dalla società, i familiari del giovane proposero ricorso al Tribunale di Milano ex artt. 669 bis e 700 c.p.c., il quale accolse la domanda cautelare e condannò, pertanto, la società a fornire la propria assistenza ai ricorrenti nel recupero dei dati personali dell’account del figlio, sulla scorta della sussistenza del fumus boni iuris -stante il fatto che, ai sensi del nuovo articolo 2-terdecies del Codice della Privacy, i dati personali concernenti persone decedute possono essere esercitati per ragioni familiari meritevoli di protezione- e del periculum in mora essendo i dati personali del giovane, destinati alla distruzione da parte della società, in seguito ad un periodo prolungato di inattività dell’account.
L’ordinanza de qua è degna di nota, poichè rappresenta la prima pronuncia italiana, ove sia stato applicato l’articolo 2-terdecies del D.Lgs. 196/2003 (Codice della Privacy), il quale statuisce espressamente che “i diritti di cui agli artt. 15 e 22 del Regolamento riferiti ai dati personali concernenti persone decedute possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell’interessato, in qualità di mandatario, o per ragioni familiari meritevoli di protezione”. Prima della modifica del Codice della Privacy, avvenuta con l’introduzione nel nostro ordinamento del D.Lgs. n. 101/2018, il Regolamento UE n. 679/2016 -volto a tutelare il diritto alla protezione dei dati personali e quindi i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche, a prescindere dalla loro nazionalità o dalla loro residenza[3]- al Considerando 27 statuiva che “Il presente regolamento non si applica ai dati personali delle persone decedute. Gli Stati membri possono prevedere norme riguardanti il trattamento dei dati personali delle persone decedute”.
Il secondo caso, recentemente deciso dal Tribunale di Milano, concerne la richiesta avanzata da una donna che, a seguito della morte del marito, chiedeva di poter ricevere le chiavi d’accesso degli account appartenuti al marito e dell’iCloud, al fine di poter recuperare foto e video ritraenti il consorte con i figli minori e nella speranza di potervi trovare dichiarazione di ultime volontà nei confronti di quest’ultimi o lettere di addio.
Conseguentemente al diniego da parte della società americana Apple, di Microsoft e di Meta Platform (WhatsApp) di fornire le chiavi d’accesso, in quanto ritenuto lesivo del diritto alla privacy dell’utente, la donna si rivolgeva al Tribunale di Milano per ottenere l’autorizzazione ad entrare in possesso dei beni digitali contenuti negli account del marito. Solo a seguito della suddetta autorizzazione, ciò è stato concesso dalle tre società. Questa sentenza rappresenta la riprova di quanto la tecnologia sia parte integrante della vita di tutti noi e sia in alcuni casi custode di segreti della nostra identità digitale.
[1] Corte Suprema Germania Federale, Sez. III, 12 luglio 2018, n. 183, in Nuova giur. civ. comm., 2019, con nota di R. Mattera.
[2] Tribunale Milano, Sez. I, Ordinanza del 10 febbraio 2021.
[3] Considerando n. 2 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la Direttiva 95/46/CE (Regolamento generale sulla protezione dei dati).